domenica 30 dicembre 2007

Paul Gauguin - Van Gogh



"Il nostro dovere è pensare, non sognare".

Firmato Vincent Van Gogh.

Destinatario Paul Gauguin
Paul Gaugin, autoritratto dedicato
a Vincent Van Gogh(I miserabili),
1888,Van Gogh Museum,Amsterdam Van Gogh, autoritratto dedicato a Paul Gauguin (Bonzo),
1888, Fogg Art Museum dell‘Università di Harvard

Basterebbe questa sentenza, con cui di fatto si chiuse una breve e intensissima amicizia, per descrivere i caratteri di due esperienze opposte e incomunicabili. Se c’erano dei dubbi sulla radicale differenza che oppose l’uno all’altro i due mitici maestri dell’arte moderna, la mostra aperta prima a Chicago e poi ad Amsterdam li ha davvero fugati tutti. Una mostra straordinaria proprio per la chiarezza con cui si sono lasciate parlare, quasi gridare, le differenze. Una mostra d’impatto tale da non aver quasi bisogno di didascalie o di contestualizzazioni: il semplice accostare le opere che i due avevano dipinto nelle stesse ore e negli stessi luoghi in quei 63 giorni di vita comune ad Arles, imponeva evidenze elementari. Sarà stato anche questo fattore ad aver determinato il successo dell’esposizione, visitata da quasi un milione e mezzo di persone nelle due sedi? C’è, sinceramente, da pensarlo.
"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Eppure era stato proprio Van Gogh a sognare a lungo quel sodalizio, primo nucleo di una comunità di pittori da radunare sotto il sole della Provenza. Era stato lui a tallonare l’amico Paul Gauguin, a farlo mettere sotto pressione dal fratello Theo, che di Gauguin era anche il mercante, e quindi teneva i cordoni della sua borsa. Decine di lettere scritte nell’estate del 1888 testimoniano l’ansia, l’impazienza, ma anche le enormi aspettative che Van Gogh riponeva su quella venuta. Gauguin, in quei mesi, stava in Bretagna, a Pont-Aven, un po’ malaticcio, e tergiversava con scuse anche un po’ patetiche, come la fatica del viaggio in treno per un artista debilitato come lui. Era di poco più anziano, già con un carattere da leader, tant’è che aveva un entourage di ammiratori e imitatori. Van Gogh era l’opposto, pieno di insicurezze, ingenuo nella vita, incapace di nascondere qualcosa di sé o di quello che faceva, come dimostrano le migliaia di lettere che ha lasciato, nell’arco, pur breve, della sua vita.Gauguin, al contrario, si muoveva sempre negli spazi dell’ambiguità, sia che si trattasse di decidere i propri comportamenti sia che si trovasse davanti al cavalletto. Se Van Gogh era monacale nel suo bisogno di cercare regole o presenze alle quali appoggiare la propria vita, Gauguin era insofferente di quelle giornate ritmate solo dal lavoro. Se Van Gogh ostinatamente s’attaccava ad ogni appiglio che la realtà gli offriva, Gauguin aveva come orizzonte finale la propria interiorità: lì il mondo iniziava e finiva. Per questo c’è davvero da credere che quando, dopo tanto esitare, si decise a prendere il treno che lo avrebbe portato ad Arles, aveva in realtà in testa solo il modo e i tempi in cui mandare a monte quel sodalizio. La fisicità della pittura di Van Gogh lo infastidiva, non sopportava quella materia grumosa e quasi fangosa, che, non si sa per quale forza, sulla tela s’accendeva di una luce a volte abbagliante. Addirittura non sopportava la cucina di Vincent, troppo grassa, troppo contadina, così poco ascetica come tutto nella vita di quello strano olandese che si ostinava a fare il pittore senza essere mai riuscito a vendere un quadro in vita sua.
A partire da quel 23 ottobre 1888, martedì, ore 5 del mattino, quando Gauguin scese dal treno alla stazione di Arles, iniziò così uno strano duello, in cui uno dei due contendenti incassava, senza per nulla soffrire, e l’altro imponeva la sua volontà, senza assolutamente riuscire ad essere felice. Gauguin arrivò, come detto, alle 5 del mattino e subito sperimentò lo stile di Van Gogh. L’olandese, felice per l’arrivo dell’amico, aveva infatti parlato di lui a tutti nella cittadina, mostrando l’autoritratto che Gauguin stesso gli aveva inviato qualche settimana prima. Così la barista del caffè alla stazione lo riconobbe immediatamente: più che lo stupore c’è da immaginare il fastidio che quel primo impatto gli provocò. Lui, abituato a muoversi nell’indistinto, doveva convivere con uno che metteva tutto in piazza. Quanto poteva durare? "Il nostro dovere è pensare, non sognare". Van Gogh, pur nella sua arrendevolezza e semplicità, era caparbiamente attaccato ad alcune evidenze elementari. Prima tra tutte, quella che non si può dipingere senza vedere, senza aver di fronte l’oggetto. Gauguin, al contrario, appena arrivato, aveva cercato di convincerlo alla pittura di immaginazione. Si mettevano con il cavalletto sullo stesso punto, dipingevano i ritratti alla stessa persona, come due allievi in accademia, ma i risultati erano sempre così lontani. Gauguin trasferiva le immagini in uno spazio mentale, le decontestualizzava dalla realtà, come creature fluttuanti in un nirvana. Sagome ritagliabili, ricollocabili in altri mondi, alleggerite di ogni concretezza e per questo ridotte a due dimensioni, cioè private volutamente di profondità. Ancor prima che arrivasse, Van Gogh aveva colto qualcosa di insano nel suo futuro compagno. "Mi fa l’effetto di un prigioniero", scrive al fratello. "Non c’è un’ombra di allegrezza. Non c’entra nulla con il mondo della carne, ma si può mettere sul conto della sua volontà melanconica. La carne nell’ombra è lugubramente rabbuiata". E poi ancora: "Gauguin ha l’aria malata nel suo ritratto torturato". Ma come, non era Van Gogh il depresso, lo schizofrenico, il perseguitato dal complesso di fallimento? Tra le sale della mostra di Amsterdam le parti si rovesciano con nitidezza. Gauguin, il grande Gauguin, si svela saturo di accidia, quasi ostaggio della sua ambiguità. Illude se stesso e gli altri d’aver trovato la via di fuga dai problemi formali e intellettuali che la fine dell’Impressionismo (l’ultima rassegna impressionista si era tenuta proprio un anno prima, nel 1887), aveva spalancato. In realtà passo dopo passo si cala in un orizzonte occulto e magico dentro il quale smarrisce anche la sua innata grazia di pittore, come dimostra l’ultima, quasi disperante, sala della mostra. Sulla parete finale c’è infatti quella natura morta con girasoli e manghi, dipinta nel 1901, in cui, nonostante il soggetto, si era persa ogni traccia dello splendore di Van Gogh. Al centro del mazzo compare l’inquietante occhio di Dio, dentro un girasole. Inquietante deriva mistico-magica di uno che aveva sempre diffidato della realtà.
Dall’altra parte Van Gogh tiene botta. È felice di quel sodalizio, baldanzoso come un bambino. Organizza la vita sin nei minimi dettagli, con una cura ogni tanto sopra le righe. Assegna, senza batter ciglio, il ruolo di superiore a Gauguin, cui assegna, di sua sponte, la camera più bella. "Le nostre giornate passano a lavorare, lavorare sempre. La sera poi siamo sfiniti e andiamo al caffè, per andare a dormire presto! Ecco la vita!", scrive sempre al fratello in novembre. Gli piacciono anche le infinite discussioni in cui si infilano, e che qualche volta sfociano in litigate più o meno furiose. Da allievo accondiscendente accetta di dipingere su quella tela di juta, e non di lino come era sua consuetudine, che Gauguin, appena arrivato, aveva comperato. La juta, a trama larga, si beve il colore, e lascia sui quadri delle apparenze più che delle realtà. Trasforma le figure in fantasmi, toglie ogni appoggio alle cose. Scarnifica, spiritualizza la pittura. Anche la scelta della tela diventa così uno strumento per forzare la natura di Van Gogh. Gauguin aveva annunciato questa intenzione prima di arrivare ad Arles, con una lettera: "Un consiglio, non copi troppo la natura. L’arte è un’astrazione; la tiri fuori dalla natura sognando davanti a quella, e pensi più all’atto creativo che al risultato; è l’unico modo di ascendere a Dio...".

Nessun commento:

Archivio blog